Noodle a colazione

L’autore, Richard Risemberg, importuna L.A. da decenni. Nonostante tutto, è stato pubblicato su decine di giornaletti letterari. Cercatelo su crowtreebooks.com.

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Translated by Roberta Scarabelli

Quando sei un vecchio autosufficiente che vive da solo, puoi mangiare quello che vuoi a colazione. Questa mattina mi sono fatto i noodle, o meglio la zuppa di noodle, una delle mie preferite con le temperature fredde. Brodo con tritato dentro degli scalogni e tagliatelle udon viscide. Ci butto un uovo e lo mescolo velocemente come mi aveva insegnato mia moglie. La zuppa fumante scalda la cucina. Lei non c’è più da cinque anni, ormai. È morta sulla sua sedia mentre rileggeva un romanzo di Hardy, Jude l’Oscuro, forse uno dei romanzi più deprimenti mai scritti. Quella donna solare e impegnata amava le storie cupe. I noodle a colazione sono diventati i miei preferiti, tranne quando fa caldo. In quel caso cammino il chilometro scarso fino al caffè della signora russa, dove servono un buon piatto di patate e uova.

Il caffè è uno dei poli della mia vita sociale. L’altro è il club degli scacchi sulla piccola via dei negozi, tre chilometri più in là. Ci vado sulla mia vecchia bicicletta una volta alla settimana, con il bello e il cattivo tempo, per trovarmi con un amico che gioca male come me, e dopo ci rifugiamo, noi vecchietti in pensione, nel ristorante accanto. L’asse tra quei due poli è il minuscolo giardino davanti a casa mia, che vedo dalle porte finestre quando mi siedo a leggere. I miei vicini che, conoscono me e le mie abitudini, mi salutano mentre passano. La sedia vuota di mia moglie che non c’è più si trova dall’altra parte del tavolo di lettura. Quando era in vita, vangava vigorosamente in giardino con il bel tempo, seguita dal gatto grigio e bianco del vicino. Allora mi sedevo a leggere fuori, al tavolino da tè di metallo, se non c’era nessun altro.

Mia moglie non era all’antica, anche se dimostrava la sua età. Certo, aveva sempre dimostrato la sua età e, come tutti noi nelle terre dell’oblio, non era stata sempre vecchia. Ma questa ragazza dai capelli grigi era ancora acuta, e anche arguta, con un sarcasmo innato che si manifestava con particolare vigore quando sullo schermo del suo portatile apparivano le notizie politiche. Tra i venti e i quarant’anni era stata una giornalista, e aveva collaborato come redattrice finché era stata presa in carico dalla previdenza sociale. Dopo di che si era dedicata alla lettura, alle piante, alla cucina e, chissà perché, a me. Ma adesso non c’è più. Ora è la signora cajun, che il gatto bianco e grigio sembra non gradire, a occuparsi del giardino attenendosi fedelmente alle disposizioni di mia moglie.

La signora cajun è un problema che non so bene come affrontare. È una donna più giovane – e per “giovane” intendo quasi sulla sessantina, ormai – con occhi luminosi e una bella risata senza timore delle rughe che ne derivano. Sto cercando di scoraggiare le sue attenzioni – perché lei, quasi inequivocabilmente, sta rivolgendo le sue attenzioni su di me – ma non sono proprio sicuro di volerlo. Né sono sicuro di volerla far entrare di più nella mia vita. In questo momento sta lavorando in giardino, i capelli scuri nascosti quasi completamente da un cappello di paglia, e devo ammettere che è un po’ sensuale così accovacciata come un gatto per estirpare alcuni fiori appassiti vicino alla piccola recinzione bianca.

Lo fa apposta? Come tutti i vicini che conosco di nome o di vista, sa bene le mie abitudini. Questa è l’ora in cui mi siedo a leggere davanti alle grandi porte finestre, di fronte al giardino e al marciapiede oltre la recinzione. Riporto la mia attenzione al libro – questa settimana sto leggendo Hardy, senza timore di conseguenze mortali – e i miseri fallimenti di Jude mi fanno venire in mente che i buddhisti considerano l’ambizione un veleno. Ma in fondo io sono vecchio e benestante e non ho mai voluto fare grandi cose. Il mio lavoro, quando lavoravo, era necessario ma non spettacolare; il mio amore era spettacolare ma tranquillo; e ho il numero giusto amici per soddisfarmi senza affollare d’impegni la settimana. L’amore e i suoi piacevoli inconvenienti dovrebbero rimanere un ricordo? La moglie che ho perso vive comunque in offuscati recessi grigi del mio cervello. Il suo ricordo sarebbe geloso, visto che lei stessa è al di là di ogni sensazione? È una domanda stupida, ma non posso fare a meno di pormela.

Bussano alla porta. È senza dubbio la signora cajun, dagli occhi luminosi e un po’ affannata per la fatica del lavoro. Ed è lavoro: il padrone di casa la paga per quello, come faceva mia moglie. Apro la porta ed eccola, sorridente e con le mani infangate, con uno sbaffo nel punto dove si è pulita la guancia. Sorride. «C’è del caffè pronto? Sono stanchissima...» E dopo aver tolto i grandi zoccoli neri entra. I piedi nudi sul tappeto, le unghie dipinte di rosso. Mi segue in cucina, dove preparo il caffè. Una nuova abitudine. Nel lavello ci sono ancora i piatti della colazione; stamattina non li ho lavati subito come preferisco fare di solito. La signora cajun, che si chiama Nicole, devo ammetterlo, li osserva. «Noodle?» chiede.

«Può scommetterci», rispondo. «Noodle a colazione. Vede, sono diventato eccentrico da vecchio.»

«Ah!» sbuffa lei. «Io ho mangiato gamberi e riso, con peperoncino e platani fritti. Anch’io sono eccentrica. Non al mio paese, certo, ma qui sì. Come li fa?»

«Alla cinese. Ma non proprio. Un modo che mi ha insegnato mia moglie.»

«Sua moglie», dice Nicole, «era molto dolce. Deve mancarle.»

Sono d’accordo.

Nicole prende la tazza di caffè che le porgo e mi guarda, con aria serissima. «Domattina mi prepari la colazione. Voglio provare questi suoi noodle. Il giorno dopo cucinerò io per lei. Va bene?»

Non ci penso su neanche un attimo e le rispondo di sì.

«Noodle per due, okay», dice.

Brindiamo con le nostre tazzine da caffè. «Noodle per due, a colazione, prossimamente.»

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