Faceva davvero freddo quella sera, non solo freddo per Miami, ed era tardi. Avevo dovuto aspettare che le bambine si addormentassero per immergermi nella follia prenatalizia del centro commerciale perché io e mia moglie volevamo assecondare la storia di Babbo Natale il più a lungo possibile, cercando di mantenere una sorta di influenza genitoriale nella nostra caotica vita domestica. Ero quasi a casa, stavo andando un po' troppo forte nell'oscurità fitta di alberi, e per un attimo abbassai lo sguardo per regolare i comandi non familiari del riscaldamento dell'auto. Fu allora che avvertii il tonfo ripugnante.
Frenai e accostai, disgustato perché sapevo di dover stare più attento nel nostro quartiere, con i suoi gatti kamikaze e i cani scatenati, che a volte includevano il nostro. Feci un respiro profondo e scesi dall'auto.
All'inizio non vidi nulla, ma poi scorsi un'ombra diversi metri più indietro. Sentii le spalle diventare pesanti e mi feci coraggio mentre mi avvicinavo, evitando di guardare direttamente il bozzo sulla strada finché non ci fui quasi sopra.
Mi resi conto che era un'iguana.
Quell'anno le iguane erano ovunque, le più recenti di una serie infinita di orde invasori a Miami. A seconda di quale tra miei vicini stronzi interrogavi, quel posto era già stato invaso e rovinato da newyorkesi, turisti tedeschi, cubani, criminali russi o omosessuali. Sono tutte sciocchezze, ovviamente. La verità è che tutti, qui, vengono da qualche altra parte. Persino il terreno è solo pochi metri di detriti, portati qui cento anni fa per fare di una palude una città. Niente e nessuno ha radici profonde. Non sono possibili. Ecco perché ci aggrediamo tutti a vicenda e aggrediamo chiunque venga dopo di noi, così ci sembra di avere il diritto di rivendicare il nostro piccolo pezzo di questo paradiso temporaneo.
Ma quelle lucertole lunghe un metro erano riuscite a unirci tutti, per una volta, nell'odio. Alcuni esemplari abbandonati di questi animali domestici esotici avevano iniziato a riprodursi ed erano cresciuti rapidamente fino a diventare una tribù di migliaia. Quando ci si rese conto del problema, era ormai impossibile sbarazzarsene. Erano troppe. Le iguane si affollavano nei parchi, fiancheggiavano le rive dei canali, mangiavano i giardini della gente e in genere incasinavano tutto. Erano diventate un'altra parte inevitabile e spiacevole della vita di Miami, come l'innalzamento del livello del mare, gli scarafaggi e la chirurgia plastica venuta male. Le odiavo tanto quanto tutti gli altri. Sembrava un dovere civico.
Ma non gli avevo mai fatto del male, né ne avevo mai vista una da vicino. Osservai la lucertola sulla strada, su un fianco, la coda schiacciata, le zampe unite in una preghiera da rettile. Era come un dinosauro in miniatura. Maestosa, anche. Le diedi un colpetto codardo con la scarpa, la carne più densa di quanto mi aspettassi. Non ci fu reazione e mi resi conto che era morta. Tornai alla macchina, ma all'improvviso non mi sembrava giusto lasciarla in mezzo alla strada. Pensai che avrei dovuto almeno spostarla di lato con i piedi. Ma quando abbassai lo sguardo e vidi quelle zampine ancora strette, non ci riuscii. Risalii in macchina e ripartii pieno di vergogna.
Raccontai a mia moglie l'accaduto. Lei disse: «Quelle bestie sono una minaccia. Sono come ratti verdi giganti. Sono contenta che tu non abbia cercato di sterzare o altro. Potevi farti male».
Riuscì quasi a convincermi.
***
La mattina dopo la TV era accesa e il telegiornale locale, sempre galvanizzato dal freddo, sostituì le solite riprese invernali a South Beach di minuscoli cani in cappottini sgargianti con immagini di iguane morte lungo le strade della città. La voce fuori campo di un erpetologo spiegò cos'era successo. Se la temperatura scende sotto i cinque gradi per più di un'ora, le iguane sono temporaneamente paralizzate. Sotto i due gradi muoiono. La sera prima era scesa a quattro gradi. Secondo lo scienziato, quelle che si erano appollaiate tra gli alberi per proteggersi dal freddo, guidate da antichi segnali nel loro cervello, avevano perso la presa ed erano cadute, morendo. Ero stato scagionato, non ero più un assassino. Tuttavia, le cose non si erano sistemate. Non mi sembrava giusto che le iguane fossero state tradite dalla loro stessa natura.
La notte seguente la temperatura scese sotto lo zero e le iguane superstiti furono spazzate via. Era la mattina della vigilia di Natale e i notiziari riportavano che alcune strade, soprattutto lungo i canali, erano quasi impraticabili. La contea inviò squadre di uomini con giubbotti riflettenti e cappelli di Babbo Natale a spalare i corpi, liberando innanzitutto le strade e i parchi.
Nella carneficina c'era gioia. Titoloni trionfali annunciavano: "I-guastafeste addio", "Igpocalisse", "Il regno del terrore finisce nella pioggia di lucertole" e il peggiore di tutti: "Miracolo di Natale".
Capivo la felicità generale. Vidi la gioia sui volti delle mie figlie al parco quel pomeriggio, quando non dovemmo scacciare mostri verdi dagli scivoli di metallo, che le lucertole avevano sempre apprezzato, probabilmente perché erano caldi per il sole e facevano piacere alle loro pance a sangue freddo. Ma per me la celebrazione della morte di massa era sempre sbagliata, ed ero deluso che il nostro odio collettivo fosse stato premiato.
Forse è per questo che stamattina mi sono emozionato quando ho colto un lampo di verde, un tempo familiare, mentre portavo a spasso il nostro cane nel parco dove le mie figlie sono ormai troppo grandi per giocare. Un'iguana, con la mascella rivelatrice del maschio, si stava abbronzando regalmente sullo scivolo, con la testa alta e gli occhi chiusi.
«Bentornata», ho gridato, tirando fuori dalla tasca un paio di biscotti per cani, tutto quello che avevo da offrire. Glieli ho lanciati e sono caduti in fondo allo scivolo. L'iguana ha spalancato gli occhi.
Ha girato la testa verso di me, controllando il pericolo, e mi ha squadrato per cinque secondi buoni. Poi si è rilassata, si è allungata e ha chiuso lentamente gli occhi. Aveva deciso che ero un amico, non un nemico, dandomi l'assoluzione che non sapevo di avere aspettato per tutto quel tempo.