Numeri di sparizione

Erin Kirsh è una scrittrice pluripremiata le cui opere sono apparse su decine di riviste letterarie a livello internazionale. Visitate www.erinkirsh.com o su twitter @kirshwords

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Translated by Roberta Scarabelli

Quando se ne andò di casa, Anita prese la valigia della mamma, quella rotonda con il manico di legno del grande magazzino di Eaton. La mamma era furiosa. L'aveva fatta tenere da parte al negozio per settimane mentre guadagnava abbastanza per pagarla, fregando lo spazio non amato dietro i bagni degli sconosciuti e insegnando violoncello ai bambini ricchi che avrebbero preferito andare al cinema. Le piaceva dire che si era rovinata le mani per reggere quella valigia, e ora, per cosa? Che senso aveva quel sacrificio adesso?

I vicini dicevano sempre che Anita era quel tipo di ragazza, ecco perché nessuno di loro la fermò quando la videro salire in macchina con quel ragazzo. Con il motore truccato, dissero. Appariscente. Chiunque se lo sarebbe aspettato. Ci furono festeggiamenti quando lei scappò, con una nuvola di fumo che usciva dal tubo di scappamento dietro di loro, la sparizione per opera di un mago.

La mamma non perdonò mai i vicini. Penso che sia rimasta a Riverside Crescent per punirli con la sua infelicità, così avrebbero saputo quanto la loro inerzia in quel momento cruciale l'avesse tradita, quanto la stesse ferendo ancora. Ora dovevano fare i conti con lei.

Finché non diventò troppo vecchia per prendersi cura del bungalow, guardò il quartiere dalla finestra come alcune persone guardano i notiziari. Era una manifestazione di accusa verso i vicini, ma non solo. Mia madre si ostinava infatti a credere che un giorno quella macchina sgargiante e da sgualdrina sarebbe riapparsa sul vialetto con Anita, matura e pudica al volante, scuse e valigia al seguito: un umile ritorno. Una rivendicazione a lungo attesa, forse anche il ritorno di un po' di amore, la ricompensa per un sacrificio.

Quando la mamma morì, cercai di rintracciare Anita, ma nel suo grande numero di sparizione non aveva lasciato traccia. Meglio così, non sapevo cosa le avrei detto dopo tutti quegli anni, e la sua compagnia sarebbe stata inutile per la mamma morta. Immagino che se l'avessi trovata le avrei detto che la sua partenza mi aveva esposto a un esame più approfondito, che avevo passato quegli anni a casa cercando di rendermi abbastanza piccola perché nostra madre potesse tenermi. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno fosse venuto con me alla casa di riposo, certo: un marito, un caro amico, persino la mia sorella ribelle. Avrebbe potuto essermi utile.

Quando arrivai alla casa di riposo, una vivace infermiera con la coda di cavallo mi raccontò che la mamma paragonava sempre (sfavorevolmente) la residenza a casa sua; che tutte le infermiere si chiedevano che palazzo dovesse possedere, visto l'amore ostinato che gli dimostrava. Rimasi sorpresa. La mamma disprezzava quella casa. Si lamentava per il serbatoio dell'acqua calda insufficiente, malediceva i mobili, detestava lo spazio scarso della dispensa, i battiscopa che ammuffivano. Mi chiesi se l'infermiera lo dicesse solo perché pensava che potesse essermi di conforto saperlo. Il dolore fa dire bugie gentil alle persone sincere.

«Non le piacevano le nostre finestre. Diceva che non riusciva a vedere fuori. Abbiamo pensato che magari la sua vista si fosse indebolita, ma non ci permetteva di portarla dall'ottico. Riusciva a guardare la televisione, comunque...»

«Aveva un bovindo a casa», spiegai, raccogliendo in una piccola scatola di cartone gli ultimi effetti personali della mamma. Abiti larghi di cotone, adatti a un corpo vecchio e dolorante, e una statuetta di porcellana di una ragazza vestita per una giornata in spiaggia. Aveva un'espressione spensierata in viso, come se avesse davanti una vita piena di relax, di tempo libero. Provai a pensare se avessi mai visto quell'espressione sul viso di una persona reale.

«Ho sempre desiderato un bovindo», disse l'infermiera, battendo le mani deliziata. Continuò a descrivere altre caratteristiche che avrebbe voluto in una casa. Ispezionai la finestra incriminata. Si affacciava sull'edificio di fronte, di mattoni rossi e su uno stretto vicolo grigio ardesia, in lontananza. Non c'era vista sulla strada, nessun modo per osservare eventuali via vai o il teatro della vita. Non era un posto dove si sarebbe potuto passeggiare lentamente lungo il vialetto.

«E un caminetto! Non sarebbe il massimo della vita?» L'infermiera tacque di colpo, come se si fosse appena ricordata il motivo per cui ero lì.

Fuori dalla finestra, seguii con lo sguardo il disegno dei mattoni nella casa di fronte. Palpai con il pollice la levigata porcellana della statuetta, seguendo la protuberanza delle sue labbra che non sorridevano. La infilai in borsa, una borsa insignificante. Una borsa che avevo comprato senza pensarci. Riflettei sull'espressione "il massimo della vita", su tutti i significati che poteva avere.

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