Lavori in corso

Kurt Bachard, candidato al Pushcart Prize, è uno scrittore pubblicato da Dell (in «Alfred Hitchcock Mystery Magazine»), Claren Books, Comet press, Flametree books, e molti altri. È originario del sud di Londra, nel Regno Unito.

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Translated by Roberta Scarabelli

Era strano che i vicini non si lamentassero. E lo so che è irrazionale, forse anche paranoico, ma immaginavo che il vecchio del piano di sopra mi avesse sentito piangere ultimamente e si stesse facendo beffe del mio lutto.

Ogni notte, mentre rimanevo a letto sveglia a fissare il soffitto scuro, avvolta nel mio bozzolo di dolore, lo sentivo ridere fino all'alba nell'appartamento direttamente sopra al mio. Intendo davvero ridere, sghignazzare come un matto. Niente musica ad alto volume, niente colpi, niente mormorii di TV o radio, solo quel vecchio che rideva da solo per tutta la notte.

«Cosa cazzo c'è di così divertente?» gridai al soffitto una notte. Smisi di sforzarmi di dormire, mi vestii e salii al secondo piano.

La sua risata sguaiata, che era riecheggiata giù per la tromba delle scale, era più forte sul pianerottolo, e mi chiesi di nuovo perché nessun altro si lamentasse nel palazzo, in particolare sua moglie.

Il signor Appleton (conoscevo il suo nome dalla cassetta delle lettere) stava ancora ridendo a crepapelle quando venne ad aprire sentendo i miei colpi alla porta.

Era piccolo, circa un metro e mezzo, con una chioma di capelli grigi spettinati ma dall'aspetto curato per un anziano. Aveva piccoli occhi azzurri e la faccia rotonda come una mela, abbastanza sveglia. Poteva essere lo zio preferito di qualcuno.

Dietro di lui, in soggiorno, una TV stava trasmettendo un film in bianco e nero che mi parve subito familiare.

«Mi sta... disturbando», dissi, quasi distratta. Mi sentivo disarmata dalla mia rabbia di fronte a quell'uomo dall'aspetto innocuo. «Mi scusi, ma non mi lascia dormire.»

Mi fissò sbattendo le palpebre un paio di volte, senza perdere nemmeno per un secondo l'aria divertita, la bocca che si apriva in un ampio sorriso a trentadue denti.

«Mi fa piacere se si unisce a me», disse. «Trovo che aiuti.» Spalancò la porta e si fece da parte.

Se non fosse stato per la sua strana risposta, forse sarei tornata da basso. In ogni caso, riconobbi il film trasmesso in televisione.

«È Stan Laurel quello che si gratta la testa?» chiesi, abbastanza incuriosita da varcare la soglia dell'appartamento del mio vicino.

«Sì», rispose lui annuendo felice, e si diede una pacca sulla coscia e rise di nuovo mentre indicava Stan Laurel che aveva appena causato un disastro a catena, alla Rube Goldberg, in un cantiere degli anni Trenta, con il risultato che a Oliver Hardy era caduto un barattolo di vernice in testa mentre si trovava su una scaletta a dipingere. Oliver Hardy cadde sul suo notevole fondoschiena come un personaggio dei cartoni animati e fece il suo famoso sguardo "non ne posso più di questo tizio" rivolto alla telecamera, rompendo la quarta parete, prima di lanciare a Stan un'occhiata sprezzante.

Mi ritrovai a spiegare: «Mio padre diventava matto per questi due. Li guardavamo sempre insieme quando ero piccola. In effetti, li guardavamo ancora con religiosa attenzione ogni volta che andavo a trovarlo, anche da adulta. Mio padre è morto poche settimane fa». Sull'ultima frase mi si incrinò quasi la voce, mentre il dolore mi serrava la gola e l'aria nel petto.

«Anche mia moglie li adorava. Ma entri, si sieda», mi disse indicando il divano davanti al televisore. «Vado a prenderle da bere.»

Sembrava così a suo agio, così simpatico e aperto, che senza pensarci mi sedetti, senza mai distogliere lo sguardo dalle buffonate di Laurel e Hardy sullo schermo. Sentii che Appleton mi metteva in mano un bicchiere di qualcosa, avvertii il suo peso sul divano mentre si sedeva accanto a me e provai una sensazione che non provavo da secoli, un solletico in fondo alla gola, una leggerezza nel petto che mi saliva dal ventre. Era una risata che sgorgava dall'oscuro pozzo di dolore intrappolato nella bocca del mio stomaco e conficcato dietro il mio cuore, e prima che me ne rendessi conto stavo ridendo, ridendo con Appleton, piangendo e ridendo in effetti. Entrambi sghignazzavamo così forte davanti alla TV che era strano che i vicini non si lamentassero.

Ridevamo in quel modo da circa mezz'ora quando qualcuno bussò alla porta. Appleton si alzò per andare ad aprire.

Dal divano sentii il vecchio che diceva: «Mi fa piacere se si unisce a noi. Trovo che aiuti».

Gillian Marsh era una bibliotecaria che abitava al terzo piano. Il suo ragazzo l'aveva lasciata circa due settimane prima. Si unì a noi sul divano per guardare Laurel e Hardy.

Stavamo ridendo tutti e tre a crepapelle per le scene comiche sullo schermo quando si sentì bussare ancora alla porta.

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