l'angelo della neve

Celeste Bonfanti è una drammaturga e insegna ai bambini sordi nel New Jersey, USA. Uno stage al Deaf Theatre presso il Rochester Institute of Technology ha ispirato “L’angelo della neve”.

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Translated by Roberta Scarabelli

Il biip della sveglia mi trascinò fuori dal tepore del bozzolo del mio piumone e mi catapultò nel lunedì mattina. Dovetti darle quattro colpetti prima che finalmente smettesse di suonare e io trovassi i miei occhiali. 6:00 di mattina e ancora buio. Ma dalla finestra filtrava un certo sentore lattiginoso che mi fece cadere le braccia.

Abitavamo a Rochester, New York, solo da sei settimane, e quasi ogni notte avevamo quella che la gente del posto chiamava “neve effetto lago”, una piccola spolverata come di zucchero a velo. Ma la presentatrice del meteo aveva previsto quella vera per tutta la settimana successiva: la prima bufera di neve della stagione.

A diciotto anni la mamma si era trasferita a sud-ovest, nel soleggiato New Mexico, per andarsene via dagli inverni di Rochester. Ma, dopo il suo licenziamento, eravamo tornati lì a metà del mio terzo anno delle superiori. E poiché soffriva di mal di schiena da una vita, sarebbe toccato tutto a me spalare. La neve effetto lago poteva essere spazzata via; tenevo la scopa nella veranda e la usavo quasi ogni mattina, odiando il freddo che mi appannava gli occhiali, odiando questa nuova vita a Rochester. Non riuscivo nemmeno a immaginare quanto tempo mi ci sarebbe voluto per spalarla tutta. E sapevo che non ci sarebbe stato nemmeno un giorno di tregua dalla neve... non a Rochester.

Sbirciai dalla finestra, depressa. Le auto e l’idrante antincendio erano imbacuccati sotto centimetri di batuffoli di cotone e stavano ancora cadendo dei fiocchi pigri. Guardai di nuovo... e trenta secondi dopo ero davanti alla porta d’ingresso, sbattendo le palpebre incredula. I gradini, il sentiero pedonale, tutto il nostro vialetto erano completamente sgombri dalla neve! E lì, in fondo al nostro cortile, qualcuno aveva disegnato due occhi e un sorriso curvo. Scoppiai a ridere, guardando a destra e a sinistra per la via.

Ma ero da sola.

Il pensiero di quella faccina sorridente mi tenne alto il morale tutto il giorno. Passai in rassegna nella mia mente i possibili benefattori. L’anziana coppia dall'altra parte della strada? Impossibile. Il tipo alla nostra destra era via. Millie, alla nostra sinistra, scosse la testa quando glielo chiesi mentre tornavo da scuola.

In fondo alla via, una portiera sbatté. Era quel ragazzo carino che avevo notato rastrellare le foglie il giorno del trasloco. Poteva essere lui...?

«Ehi», gridai. «Ciao! Per caso...?» Non si voltò nemmeno e si affrettò a entrare in casa. E tornai a casa anch’io, cercando di evitare che quella porta chiusa mi rovinasse l’umore.

Mandavo messaggi ai miei amici nel New Mexico due o tre volte alla settimana e ci vedevamo su Skype abbastanza regolarmente. Ma, chissà perché, invece di farmeli sentire più vicini, mi ricordava solo la vita felice che avevo lasciato. Detestavo la terribile sensazione di essere un pesce fuor d’acqua e il fatto che tutti intorno a me facevano già parte di un gruppo. Sarebbe stato divertente avere qualcuno, oltre alla mamma, con cui ridere di quel mistero. Ma il vento pungente e la neve effetto lago di quella sera coprirono la faccina felice, e con lei scomparve anche il mio sorriso.

Per il fine settimana era prevista un’altra bufera. «Non credo che l’angelo della neve arriverà questa volta», dissi alla mamma mentre andavamo a letto. Ma mi sbagliavo. Successe di nuovo. E di nuovo la vidi: la faccina sorridente che mi risollevava il morale. L’angelo della neve era uscito presto e la neve accumulata (che ormai si riduceva a raffiche) stava facendo del suo meglio per cancellarla. Provai un desiderio irrazionale di proteggerlo, in qualche modo, quel piccolo simbolo di semplice gentilezza che ancora una volta mi aveva fatto dimenticare di essere ancora la nuova arrivata in una città fredda e grigia.

«Ma chi potrebbe essere?» chiese la mamma.

«Non lo so», risposi, «ma lo scoprirò.»

Passarono quasi due settimane prima della grande nevicata successiva. Ed ero decisa a scoprire l’identità del mio angelo della neve. Dormii in tuta, gli stivali vicino alla porta d’ingresso, e puntai la sveglia ogni mezz’ora dalle 5:00 del mattino in poi.

Biip! Riemersi da un sogno dove cadeva la neve in pieno deserto vicino a Santa Fe. Misi gli occhiali e sbirciai fuori. Era passato lo spazzaneve; la strada era l’unica macchia grigia in un mondo bianco. Forse stavolta sarebbe toccato a me spalare. Mi ricacciai sotto il piumone e avevo appena chiuso gli occhi quando... biip! Erano le 5:30. Mi svegliai di soprassalto... sentendo un suono sordo e raschiante da qualche parte da basso. Precipitandomi alla finestra, vidi una sagoma imbacuccata che spalava il vialetto!

Corsi giù per le scale e mi infilai gli stivali e la giacca a vento. Spalancai la porta e gridai dalla veranda: «Ciao! Scusa?».

La sagoma non si voltò né si fermò; continuò come se niente fosse a togliere la neve dal vialetto.

Chiamai di nuovo. Nessuna risposta.

Starà ascoltando della musica! pensai mentre scendevo i gradini, seguendo le orme dell’angelo della neve che indietreggiava. Era più alto di me, con indosso una sciarpa, guanti e un giaccone che sembrava più caldo della mia giacca a vento.

«Ciao!» riprovai. Nessuna risposta.

Appena prima che la sagoma raggiungesse il marciapiede, le diedi un colpetto sulla spalla. E all’improvviso mi ritrovai a guardare due occhi azzurri spaventati che subito s’illuminarono. Sussultai. Era il ragazzo carino in fondo all’isolato! Emise un suono sommesso, infilò la pala nella neve e si frugò in tasca.

«Ehi, sei tu!» iniziai a dire. «Volevo ringraziarti...»

Ma la sua mano si posò sul mio braccio. Scosse la testa, indicandosi l’orecchio mentre tirava fuori il cellulare. Scrisse in fretta:

SORDO

MI CHIAMO ANDREW

SAI LA LINGUA DEI SEGNI?

Di colpo, tutto quadrò. Non mi aveva ignorato... semplicemente non mi aveva sentito!

Scossi la testa. Ma posso imparare, pensai.

«Sai leggere le labbra?» chiesi.

Lui scosse la testa e ricominciò a scrivere:

MI SFUGGE TROPPO

BENVENUTA NEL QUARTIERE

Poi mi porse il cellulare, sorridendo.

Gli feci un cenno di seguirmi in veranda. Lungo la strada scivolai e il suo braccio m sorresse all’istante. Mi accorsi di arrossire, grata che il freddo mi avesse già messo delle rose sulle guance. Sulla veranda scrissi:

MI CHIAMO TARA

SEI SEMPRE COSì CARINO?

Lui rise, riprendendosi il cellulare:

VISTO TARGA DEL N M

TI HO VISTO TRISTE

VOGLIO VEDERTI SORRIDERE

E, mentre scoppiavamo a ridere insieme, cominciai a rendermi conto che la vita nella nevosa Rochester non sarebbe stata poi così male, dopotutto.

***

Nota:

Rochester, New York, ha in percentuale più persone sorde di qualsiasi altra città al mondo.

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